News13/11/2020 - Italia

Nella società italiana c’è una linea di frattura

Nella società italiana c’è una linea di frattura
Ad Arnaldo Bagnasco, sociologo che ha studiato l’evoluzione del ceto medio italiano, lo striscione («È facile per chi ha lo stipendio sicuro dire agli altri di stare a casa») srotolato da ristoratori e commercianti anti lockdown è rimasto impresso. di Dario Di Vico per Corriere.it

Lo slogan ripropone e aggiorna una «linea di frattura» della società italiana, da una parte lavoratori dipendenti e pensionati (quasi fossero dipendenti dell’Inps) e dall’altra autonomi e partite Iva. Il ceto medio italiano spaccato lungo l’asse protezione/mercato. Come ha sostenuto anche Massimo Cacciari.

Quello striscione la preoccupa?
«Capisco il sentimento e anche le ragioni di chi lo esponeva, i “ristori” devono essere quanto più possibile rapidi e adeguati, ma bisogna stare attenti a non radicalizzare quella divisione, che ci riporta a ruvide diatribe sull’evasione fiscale degli autonomi e la scarsa produttività dei dipendenti pubblici».

Il vecchio compromesso democristiano per far crescere e tenere assieme il ceto medio.
«Negli anni di forte sviluppo del secondo dopoguerra, in tutti i Paesi avanzati cresce il ceto medio, indipendente e soprattutto impiegatizio (la middle-class degli americani); ma nel nostro caso avviene anche con la ricerca di equilibri sociali per via politica a danno dell’efficienza economica e della modernizzazione delle relazioni sociali. Le licenze di commercio concesse a pioggia o le assunzioni senza concorso, tanto per fare due esempi. Non bisogna però ricadere cinquant’anni dopo nello stesso tipo di diatribe, che oltretutto oscurano quanto di buono è stato fatto. Il nostro ceto medio è complicato e disomogeneo, pesante e poco innovativo, o forse è meglio dire, meno di quanto avrebbe potuto esserlo».

La Grande Crisi 2008-2015 però è passata come un terremoto su di loro.
«Non solo sul ceto medio. C’è stata subito una secca perdita di reddito nazionale, un impoverimento complessivo e un balzo della disuguaglianza, con un’ampia fascia di povertà. Il ceto medio è stato “strizzato” ma più si scende nella scala sociale più la condizione peggiora. I professionisti e gli impiegati, per esempio, hanno in media tenuto meglio degli operai. E comunque le usuali categorie come operai, impiegati e via dicendo, valgono meno di una volta per sintetizzare condizioni molto differenziate al loro interno».

Cosa ha indebolito gli operai?
«Tante cose. Il passaggio all’economia post-industriale, la ridefinizione delle figure professionali indotta dalla tecnologia in evoluzione, l’incertezza di condizioni e percorsi lavorativi con la deregolazione economica, la flessibilità impropria nell’uso del lavoro e le varietà di quello che abbiamo imparato a chiamare il lavoro “atipico”, l’indebolimento del sindacato come conseguenza di questi cambiamenti, e altro ancora».

Anche la batosta subita dagli autonomi ha molte cause: l’età media degli artigiani, la tecnologia digitale, la concorrenza cinese.
«Certo. Dal mondo delle Pmi italiane però sono arrivate anche risposte importanti. Pensiamo alle medie imprese che si sono rivolte con successo al mercato internazionale; queste però sono al momento rimaste ancora poche».

È sull’insieme di queste debolezze che la pandemia può assestare un ulteriore colpo?
«È evidente. Per questo abbiamo bisogno di rimediare alle magagne del passato e non soffiarci sopra. La mia preoccupazione principale è che quella linea di frattura finisca per stabilizzarsi, anche in modi nuovi, come contrapposizione fra privato e pubblico in un momento in cui la capacità di collaborazione tra i due mondi va rimessa al centro dell’iniziativa politica. Radicalizzare avrebbe l’effetto di nascondere le opportunità e allontanare le convinzioni che a fatica si stanno facendo strada, non solo in Italia, sul modo di correggere le conseguenze di disordine economico e disuguaglianza sociale degli ultimi decenni. La teoria economica e la ricerca sociale riconoscono sempre più che l’azione diretta e intelligente dello Stato è essenziale nel creare condizioni per opportunità innovative della libera azione di mercato, individuate con il concorso di attori pubblici e privati».

Con le dimostrazioni di inefficienza date durante questi mesi parlare di Stato intelligente, ammetterà, non è facile.
«Mi scusi ma i propositi di green economy avanzati in sede europea non sono forse l’esempio di un soggetto innovatore pubblico che cerca il dialogo con le risorse private? Lo stesso vale per lo sviluppo di altre innovazioni radicali, in settori come i medicinali rivoluzionari, le biotecnologie, le nanotecnologie, l’informatica e la telematica».

Dagli striscioni dei ristoratori siamo arrivati agli assetti economici del dopo-pandemia. È proprio convinto che il legame sia così stretto?
«Sì. Non sappiamo come sarà la società di domani, e che categorie dovremo usare per descriverla con precisione. Riflettendo però a partire dalle tensioni che qui rivelano gli striscioni ricordati all’inizio, ci rendiamo conto che la struttura della società è in grande cambiamento, e che non dobbiamo attardarci a rinforzare vecchie trincee. O a rinfocolare vecchi conflitti».

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